Riceviamo e volentieri pubblichiamo, un contributo del maestro Gino Pastore sulla recente scoperta di un interessante sito archeologico a Capurso.
Scoperte archeologiche a Capurso
Il 17 luglio scorso Telenorba, rete televisiva di Conversano, ha dato notizia del rinvenimento di un sito preistorico verificatosi in contrada San Pietro, a Capurso, durante i lavori di interramento dei binari delle Ferrovie Sud-Est (Fig. 1).
L’evento è di notevole importanza storica per la nostra provincia perché riguarda la scoperta di una decina di fornaci utilizzate per la cottura della ceramica e risalenti, a detta degli esperti, a circa 4.000 anni prima di Cristo.
In esse sono state rinvenute lame, punte di frecce , ossidiana, resti umani e la conocchia di un fuso d’argilla per la filatura della lana.
Analoghi ritrovamenti in passato avvennero a Porto Perone, a Punta la Terrara, a Santa Maria di Ripalta (FG), a Posta Rivolta (FG), a Porto Cesareo (LE), per parlare solo della Puglia.
Quello di Capurso, perciò, è forse il primo della provincia di Bari ascrivibile a quell’epoca, anche se non l’unico. Di un altro probabile sito interessante, infatti, dirò più avanti.
Il ritrovamento di Capurso, intanto, rinvia ad un’altra scoperta avvenuta sul suo territorio all’inizio del secolo scorso, cioè a quella di una brocca o Oinochoe trilobato, a decorazione monocroma, di fabbricazione peuceta, risalente al V-IV secolo a.C. e facente parte del corredo di una tomba.
Anche allora la scoperta avvenne durante i lavori di costruzione della ferrovia Sud-Est, (Fig. 2).
Ne detti notizia il 1983 nel volume Capurso tra storia e cronaca, auspicando nel contempo che altri scavi portassero ad ulteriori interessanti scoperte.
Le fornaci oggetto di questo articolo risalgono al periodo intercorrente tra l’età del bronzo (3.400 a.C – 600 a.C.) e l’età del ferro (500 a.C. – 332 a.C.).
Altri monumenti preistorici diffusi in Puglia e presenti anche sul nostro territorio erano le specchie delle contrade agricole “Serrone” e “Marrone” (Fig. 3).
Si trattava di osservatori militari (dal latino speculor = osservo) e quindi di presidi posti a difesa di territori abitati da comunità apule.
A tal proposito e in stretta connessione con il
tema delle fornaci, il 1985 sulla rivista “Paesi” scrissi di un sito archeologico da me individuato nel territorio della vicina Triggiano, in località Monte. L’area, posta di fronte ad una grossa specchia (Fig. 4), presentava un’ampia zona di terra, composta in gran parte da cenere ed humus, in cui rinvenni cinque frammenti di ‘ceramica impressa’ a ‘decorazione cardiale’, ottenuta cioè con il peristoma del Cardium (mollusco a forma di cuore).
Si trattava di cinque cocci, tuttora in mio possesso, sui quali erano evidenti le impressioni ‘a Cardium e a unghiate’, ‘a pizzicato’, ‘a doppia fila punzonata e disposta a zig-zag’, ‘a reticolo unghiato’ (Fig. 5).
La zona molto probabilmente aveva ospitato una fornace per ceramica che, per la particolarità dei frammenti rinvenuti, è ascrivibile forse all’inizio del neolitico.
Alle spalle della specchia, dopo un lieve salto geologico, vidi il fondo della capanna neolitica (Fig. 6) di cui avevo avuto notizia da alcuni studiosi di civiltà preclassiche e, nel contempo, scoprii un tratto di strada romana ricoperto da sterpaglie ( Fig. 7).
Una maggiore evidenza scientifica potrebbe essere acquisita grazie ad una campagna di scavi che, al momento, ritengo assai difficile da realizzare.
Il rinvenimento di fornaci preistoriche, comunque, come la presenza di specchie, attesta una cospicua antropizzazione del territorio. Le fornaci, infatti, servivano a cuocere recipienti di ceramica cruda e manufatti vari, destinati all’uso domestico da gruppi o tribù di persone che, da cacciatori e raccoglitori nomadi, si erano trasformati in agricoltori e allevatori grazie alle migliori condizioni climatiche delle terre in cui si erano stanziati alla fine dell’ultima glaciazione.
Della funzione delle specchie ho già detto. È interessante capire, a questo punto, come si arrivò a produrre e a cuocere la ceramica.
Nascita della ceramica
Fino a 12.000 anni fa i nostri antenati si alimentarono grazie alla caccia e alla raccolta di frutti spontanei e di erbe.
Al termine dell’ultima glaciazione, detta di Wurm, iniziata circa 130.000 anni fa e terminata appunto più o meno 12.000 anni fa, ebbe inizio un nuovo periodo interglaciale (quello in cui stiamo ancora vivendo), con il quale si ebbero notevoli mutamenti: clima più mite, scioglimento dei ghiacciai e formazione dei corsi d’acqua, estinzione della fauna delle zone fredde.
L’uomo perciò cacciò animali più piccoli e, per farlo, costruì l’arco e si servì dell’aiuto del lupo, che aveva già addomesticato.
Fu un periodo di transizione detto mesolitico o della pietra di mezzo.
Dopo avere osservato che i corsi d’acqua avevano un regime stagionale e che i semi, grazie all’acqua germogliavano e, protetti dall’umidità, potevano essere tenuti da parte per essere utilizzati nella stagione successiva, orientò la sua dieta verso il consumo di granaglie. Allo stesso tempo imparò ad allevare alcuni animali dai quali poteva ricavare cibo e materie prime, come era per esempio la lana, utile a produrre indumenti che lo proteggessero d’inverno.
Tutto ciò favorì l’incremento numerico di alcuni gruppi, per il sostentamento dei quali era necessario conservare molte granaglie.
Si deve in gran parte a questo bisogno la scoperta della ceramica che, forse, avvenne per caso.
In quel tempo i fondi delle capanne in genere erano ricoperti d’argilla. È probabile che il calore dei focolari avesse ‘cotto’ la terra e che in tal modo avesse indicato all’uomo il processo da seguire per produrre ciotole, vasi, cavità impermeabili ed altri utensili.
Quel periodo, forse impropriamente chiamato Neolitico, fu in effetti il periodo della ceramica, dell’agricoltura e dell’allevamento. In buona sostanza fu l’inizio della civiltà *.
* Giorgio P. Panini – Il grande libro della Preistoria – Arnoldo Mondadori Editore – 1985
Alcuni tipi di fornace
Dagli studi sulle fornaci preistoriche rinvenute di tempo in tempo in diverse zone del territorio nazionale si evince che esse possono essere classificate sostanzialmente nei seguenti cinque tipi: “A cielo aperto” o “A catasta”, “A camera unica”, “A due fosse”, “A fossa singola”, “Fissa in muratura”.
Quelle “A cielo aperto” o “A catasta”, il tipo più antico e il più semplice, era realizzato spesso in una leggera depressione di un’area circoscritta del terreno. In esse i manufatti crudi venivano collocati sul combustibile (sterco, rami secchi, erbacce, canne) posto sul fondo e usato anche per inframezzarli.
Quelle “A camera unica”, costituite da una fossa in cui i manufatti erano coperti e inframezzati dal combustibile, per l’isolamento avevano una copertura in pietra o altro materiale, che a sua volta presentava un’apertura per il tiraggio.
Quelle “A due fosse”, con struttura orizzontale o verticale, erano costituite appunto da due fosse distinte posizionate ‘ad otto’, una delle quali era usata come camera di combustione e l’altra come camera di cottura.
Quelle “A fossa singola profonda a sviluppo verticale”, presentavano sul fondo la camera di combustione, distinta a mezzo di un diaframma forato dalla sovrastante camera di cottura.
Quelle “Fisse in muratura” di pietre o mattoni, presentavano due camere come quelle a due fosse, ma, a differenza di tutte le altre, non venivano distrutte, perciò eran dette ‘fisse’.
Di quelle rinvenute a Capurso alcune sono del tipo “a due fosse” a sviluppo orizzontale e il resto del tipo ad una fossa.
È lecito a questo punto porsi qualche domanda. Quale comunità le usava? Come vivevano quei ‘capursesi’ ante litteram?
Molto probabilmente esse furono utilizzate da gruppi di Japigi provenienti dall’Illiria e stanziatisi intorno al 1200 a.C. in quella che oggi è la provincia di Bari. Pochi secoli dopo, guidati da Peucezio, arrivarono da noi i Peuceti, che scacciarono alcuni gruppi di Illiri e si integrarono con i rimanenti gruppi, costituendo delle sottotribù japige.
Si cibavano con i frutti della terra e con la carne degli animali che allevavano, oltre che con quella della selvaggina che cacciavano. A giudicare dai manufatti rinvenuti e in particolar modo dalla conocchia di un fuso d’argilla per la filatura della lana, la ‘nostra’ comunità doveva aver fatto notevoli passi avanti sulla via del progresso. La lana filata, infatti, doveva poi essere tessuta o lavorata per ottenere indumenti personali. Il che presupponeva l’uso di altri utensili da loro stessi prodotti, la concezione di un progetto di vita possibile e una forma di organizzazione sociale abbastanza evoluta.
È da tener conto, inoltre, del fatto che solitamente le fornaci erano costruite in luoghi dove era facile reperire la materia prima, l’argilla, e l’acqua necessaria per la sua lavorazione, quindi vicino a corsi d’acqua, che da noi scorrevano quasi esclusivamente nelle lame. L’acqua era presente anche in zone depresse, quale era per esempio quella della contrada “La grava”, non lontana dal sito archeologico oggetto di questo scritto.
Altro fattore topografico importante era costituito dagli assi viari esistenti, come era la vecchia consolare Bari-Taranto, divenuta poi la SS. 100.
Non è facile, purtroppo, stabilire da quante persone era formato il gruppo o la tribù stanziatasi sul nostro territorio, né sapere se le loro fornaci servivano solo alla cottura dei loro manufatti o se vi si cuocevano manufatti anche per altri gruppi stanziatisi in luoghi vicini o lontani dal loro.
A questo punto una domanda è d’obbligo: – È possibile affermare che tra i suoi componenti e noi non c’è stata soluzione di continuità, cioè che noi siamo il risultato della loro evoluzione?
In mancanza di altre testimonianze materiali è difficile dirlo. Sta di fatto che il ritrovamento dell’Oinochoe trilobato, di fattura peuceta, sta ad indicare una certa continuità storica delle genti che popolarono il nostro territorio. Ne è una conferma il modello di fuso cui apparteneva la conocchia d’argilla oggetto del recente ritrovamento. È giunto fino a noi sostanzialmente nella stessa forma, anche se prodotto in legno. Le nostre nonne erano assai abili, ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso, nel fare ruotare la conocchia su una loro coscia per imprimere un movimento rotatorio a tutto il fuso per la filatura della lana.
Ci auguriamo che ulteriori scoperte portino alla luce i capitoli mancanti di questo racconto.
È per questo che la storia, una volta emersi nuovi dati, va riscritta.
Gino Pastore
Profilo biografico di Gino Pastore
Gino Pastore, triggianese di nascita (1938) e capursese di adozione, è un autore attento a cogliere i tratti più significativi della tradizione culturale dei luoghi in cui opera.
Il 1983 dette alle stampe il volume “Capurso tra storia e cronaca”, un prezioso compagno di viaggio per la stragrande maggioranza dei capursesi.
Il suo saggio “I garibaldini e Capurso”, nato per le celebrazioni del centenario della morte di Garibaldi, è presente negli atti del convegno ‘Garibaldi e la Puglia’, pubblicato da Bracciodieta di Bari il 1985.
Per la sua Triggiano, tra gli altri scritti, ha pubblicato i due volumi delle “Cronache triggianesi”, in collaborazione con il compianto amico fraterno prof. Pietro Addante.
È stato per molti anni ispettore onorario ai monumenti per il Comune di Capurso, su nomina della Soprintendenza per i beni ambientali, architettonici, artistici e storici della Puglia.
Il 1998, con i materiali della sua vasta collezione, ha curato l’allestimento della indimenticabile mostra “Rivediamoci a scuola”, relativa a un secolo circa di storia scolastica capursese.
Risale al 1999 il volumetto “Alias – Repertorio di soprannomi in uso in Triggiano, in Capurso e in Cellamare tra XVI e XX secolo, edito dalla Levante editori di Bari, che ha curato anche la pubblicazione dei volumi “Racconti popolari” (2000), “Alalà capursesi” (2001), “Lessico capursese” (2002), “L’altra ‘Adultera’” (2003), “Capurso – L’album sportivo” (2003), “Entro le mura” (2005), “ ‘San Francesco di Paola’ in Capurso” (2006), “La storia di Capurso. Le leggende, le cronache, il folclore” (2014).
Il maestro, inoltre, coltiva con successo l’hobby della pittura, di cui in dicembre del 2019 ha dato significativa prova con la mostra “Cibarte”, allestita con la collaborazione proficua di ‘Capurso Web TV’.
Il link del servizio andato in onda su Telenorba
http://www.norbaonline.it/ondemand-dettaglio.php?i=94509
Redazione